Cadmio nelle urine collegato all’insorgere di malattie

Elevati livelli di cadmio che possono essere assorbiti tramite il fumo o l’inquinamento sono stati correlati all’insorgere di malattie del fegato e ai decessi a esse legati.

Avere alti livelli di cadmio nell’organismo è stato collegato a un maggiore rischio di morte per malattie del fegato.
Questo metallo tossico, poco presente allo stato naturale, è stato per molto tempo utilizzato nella produzione di pile e, in forma ionica, quale pigmento, ma anche come fissante o rivestimento per materiali plastici e nelle leghe metalliche. E’ dunque spesso presente nell’ambiente a causa delle lavorazioni industriali o a causa di un suo scorretto smaltimento. Non da meno, lo si può assorbire con il fumo di sigaretta, che è una delle maggiori fonti di assorbimento tra la popolazione generale.

Un esame delle urine che riveli la presenza in dosi elevate di questo metallo è dunque da prendere in seria considerazione, avvertono gli scienziati della Johns Hopkins University School of Medicine dopo aver condotto uno studio in cui si è scoperto come chi presenta queste condizioni ha 3,5 volte maggiori probabilità di morire per una qualche malattia del fegato, rispetto a coloro che hanno bassi livelli.

Per il loro studio, il dottor Omar Hyder e colleghi hanno analizzato i dati relativi ai 12.732 partecipanti al National Health and Nutrition Examination Survey (NHANES III). Queste informazioni comprendevano interviste personali, esami clinici fisici, esami del sangue e delle urine, ecografie.
I ricercatori hanno poi esaminato i livelli di cadmio nelle urine, e i risultati di registrazioni eseguite con gli ultrasuoni utilizzati per diagnosticare le varie malattie del fegato.
Per mezzo delle analisi, gli scienziati hanno potuto suddividere i livelli di cadmio nelle urine in quattro quartili, scoprendo che i soggetti che rientravano nel quartile più alto avevano quasi 3,5 volte più probabilità di morire di malattie epatiche correlate, rispetto a quelli nei tre quartili più bassi.

Tra le potenziali malattie, anche mortali, vi è la steatosi epatica non alcolica e la steatoepatite non alcolica. Patologie caratterizzate da depositi di grasso nel fegato che ostacolano la funzione epatica di filtrare le tossine dal sangue, favorire la digestione, produrre ormoni e immagazzinare energia.
Secondo il dottor Hyder, sebbene l’esposizione professionale al cadmio fra i lavoratori sia diminuita, l’esposizione ambientale continua a essere presente e attuale.
Se questo e altri studi confermeranno che l’esposizione al cadmio può causare le malattie del fegato, si dovranno condurre ulteriori sforzi per ridurre la sua presenza nell’ambiente.

A esserne più colpiti sono gli uomini, rispetto alle donne, fanno notare gli autori dello studio. E le differenze di genere potrebbero essere dovute agli effetti protettivi degli ormoni femminili che, in special modo durante la menopausa, possono ridistribuire il cadmio immagazzinato in fegato e reni – dove in genere provoca più danni – e nelle ossa, dove rimane più stabile.

I farmaci per le terapie di chelazione, che si legano ai metalli pesanti e li rimuovono dagli organi sono tutt’ora disponibili. Tuttavia, tali terapie non sono state finora utilizzate sulle persone con cronica esposizione al cadmio, sottolinea Hyder nel comunicato Johns Hopkins.
«Conosciamo già i rischi per la salute dei metalli pesanti come il piombo e il mercurio, ma non sappiamo molto di quello che il cadmio fa al corpo», conclude Hyder.

Fonte: www.lastampa.it

Pubblicato da G.C.

Informatore Scientifico del Farmaco

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